“Il detenuto non doveva sapere chi altro c’era lì, né avere alcun contatto umano che non fosse rigidamente controllato, a fini psicologici, dalle guardie”. Queste alcune delle parole di Anna Funder nel suo famoso “C’era una volta la Ddr”.
Molte e molti di noi hanno letto questo libro, sentendo “l’odore della paura allo stato puro[…]vecchia orina e terra: l’odore della sofferenza”, si sono commossi con le Vite degli altri scrutate con gli occhi capitano Gerd Wiesler, interpretato da un superbo e compianto Ulrich Mühe. La Stasi di Erich Mielke con le sue numerose stanze per 120 interrogatori simultanei in cui un’anima veniva sfigurata per sempre è nota, come lo è la storia della Ddr e del suo massimo rappresentante, Erich Honecker. La sede dell’allora Ministero della Sicurezza di Stato è oggi un Museo memoriale: lo Stasi Museum, anch’esso rinomato, molto visitato e su cui è stato scritto tanto. Al mondo sono esistiti(ed esistono ancora) più regimi, ognuno con “la propria Stasi e il proprio Stasimuseum” : è il caso del Paese delle Aquile del regime di Enver Hoxha, paese completamente chiuso al mondo per oltre 45 anni.
Il Sultano Rosso era contrario a qualsiasi revisione dell’ortodossia marxista leninista in corso negli anni ’60, e pian piano romperà i rapporti con tutti gli altri paesi, fino a ritirare l’Albania dal Patto di Varsavia nel 1968. “Dopo di questa rottura, Hoxha invita il suo popolo a “vivere e lavorare come in un assedio”, avvalendosi dei metodi propagandistici e degli slogan usati nell’Unione Sovietica degli anni trenta. Quindi, lui copia e attiva il sistema economico e sociale dell’epoca staliniana”.1 L’Albania del Sultano rosso paranoico ossessivo diventa il paese più impenetrabile d’Occidente, ne sono rappresentativi le migliaia di mini-bunker disseminati in tutto il paese, costruiti per assecondare la psicosi del leader di un attacco nucleare e di un’invasione da parte di forze straniere.
Tal isolamento tra cemento e manie di controllo non poteva non avere una Stasi, che in Albania si chiama Drejtoria e Sigurimit të Shtetit (“Direzione della sicurezza di stato”) conosciuta come Sigurimi, la polizia segreta albanese attiva nel periodo 1943-1991. L’obiettivo della Sigurimi era quello di prevenire la rivoluzione e di reprimere la criminalità. “Secondo Katriot Myftaraj autore del primo libro sul tema “Sigurimi i shtetit 1944-1991- Storia della polizia politica del regime comunista”, sarebbe stata la polizia “più” segreta nella storia delle paritetiche del ventesimo secolo poiché non è mai esistita una legge che stabiliva le sue funzioni e la sua posizione. Operava solo in base a una piattaforma del Comitato Centrale del Partito che in realtà, formalmente non aveva nessun potere legislativo”.2
Dalla Funder abbiamo appreso che durante la Ddr ogni “controllore” sorvegliava diligentemente e contemporaneamente la vita di sei tedeschi, nel regime enverista pare che il rapporto fosse di uno a tre. Chi erano gli “informatori” in Albania? Oltre agli agenti, veri e propri “paladini della giustizia”, la Sigurimi poteva contare su una fitta rete di spie e collaboratori che, secondo alcuni dati, raggiungevano il 20 per cento della popolazione complessiva albanese. Nessuno era incolume, persone che spiavano i propri vicini, i propri amici, i propri familiari, i propri condomini: la paura e la coercizione hanno reso i comuni cittadini dei seriali calunniatori, insieme ai cittadini animati da puro e gratuito servilismo. Tutto veniva monitorato, registrato e archiviato. A partire dal materiale conservato, l’Albania ha recentemente fatto i conti con il suo doloroso passato aprendo, innanzitutto, tra il 2015 e 2016 gli archivi della Sigurimi, rendendoli accessibili e consultabili da tutte le vittime della persecuzione enverista, dai collaboratori del passato regime e dalle associazioni interessate. Ha intrapreso un percorso al fine di conservare e trasmettere la memoria storica del proprio passato recente (processo spesso claudicante in Italia).
Il 23 maggio 2017 nasce il Museo Nazionale dei Servizi Segreti, all’interno della struttura nota come Casa delle Foglie, in albanese “Muzeu Kombëtar “Shtëpia me Gjethe“, nel cuore della eterotopa e cosmopolita Tirana, di fronte alla Cattedrale Ortodossa. Fortemente voluto dal governo albanese, porta anche delle firme italiane: Elisabetta Terragni, dello studio DRAW Design Research Architecture Writing, che ha realizzato il progetto espositivo, e di Daniele Ledda dello studio xycomm, responsabile della comunicazione visuale.
L’edificio è degli anni ‘30, inizialmente ospitava la prima clinica ginecologica privata, durante l’occupazione nazista tra il ‘43 e il ‘44 diviene quartier generale della Gestapo. Successivamente cambiano i protagonisti ma non l’efferatezza, la Sigurimi ne prende possesso e la trasforma nella sua base operativa. Le foglie rampicanti e la folta vegetazione schermano la casa e la separano dal resto, come se fissassero nel tempo e nello spazio per non cancellare la storia, come una cicatrice dopo un lunga guarigione.
Dietro il fruscìo di queste foglie si cela la capillare ragnatela di cablaggi fatta di strumentazione moderna, orecchie da cui tutto si sente, microfoni viventi , anguste stanze dove si svolgevano gli estenuanti interrogatori, le estorsioni, le condanne, dove un’anima veniva sfigurata per sempre: “al di là dei numerosi cimeli e delle fotografie che illustrano un pezzo di storia albanese, ciò che impressiona è l’atmosfera che si respira lì dentro, grazie ad un sapiente gioco di luci ed ombre”.3
L’interno della casa è invece diviso in due piani, con diversi settori a loro volta suddivisi in molte stanze attraverso i quali percorriamo l’itinerario storico.
Nel primo settore viene illustrata la storia della casa dalle sue origini in qualità di prima clinica ginecologica privata, fondata dal Dottor Jani Basho, di cui abbiamo sue foto e i documenti con la sua biografia, il suo curriculum vitae. L’intera casa viene confiscata dallo Stato per nuove esigenze dell’Albania indipendente per diventare base operativa della feroce Sigurimi, procedendo con la Sala degli interrogatori dove vengono documentati i metodi di investigazione e tortura utilizzati dalla polizia segreta e di come ha perfezionato la propria arte del controllo psicotico dal 1943, anno della sua nascita alla metà degli anni ‘50 periodo in cui affina gli strumenti elettronici fino alle emblematiche cimici: lo spionaggio è ora dispiegato su tutto il territorio albanese, nessuno è indenne. Un intero settore del museo è dedicato alla cimice e ai dispositivi di controllo e sorveglianza, precipui per la propaganda e dominio incontestabili. Il Ministro degli Interni non bada a spese, come si può apprendere da una fitta documentazione sugli accordi tra Sigurimi e Ministero il budget destinato per gli strumenti di controllo era molto alto. Oltre all’indiscussa regina dello spionaggio, l’onnipresente cimice, la polizia si avvale di due microfoni, fissi e mobili. I primi dalla natura stazionaria venivano nascosti nelle abitazioni, spesso all’interno dei muri, quelli mobili servivano per altri controlli, sempre addosso ai dipendenti, tristemente noti come microfoni viventi. Lo Stato investe sia nella formazione, perché le spie devono essere preparate sul protocollo, devono conoscere tutte le linee guida del monitoraggio telefonico, del totale controllo di una casa sospettata, sia nella ricerca, finanziando gli studi ingegneristici sul potenziamento perpetuo della cimice. Le foto nelle sale mostrano la completa nevrosi di un sistema autoritario, che arriva in ogni angolo, in ogni casa, insinuandosi come il patriarca che deve osservare tutto e punire all’occorrenza. L’operosità del controllo è garantita sia dalla perfezione tecnica delle cimici e dall’arredamento scarno ed essenziale delle dimore albanesi. Peculiarità delle stanze del museo è che il visitatore stesso è sottoposto al controllo del Grande Fratello, invitato a indovinare dove sono nascoste le cimici per avere un’esperienza catartica. “Al di là dei numerosi cimeli e delle fotografie che illustrano un pezzo di storia albanese, ciò che impressiona è l’atmosfera che si respira lì dentro, grazie ad un sapiente gioco di luci ed ombre”.4
In ogni regime la repressione è accompagnata sempre da una incessante attività di proselitismo, plasmando la divulgazione con l’elemento propagandistico e l’indottrinamento, sotto l’occhio vigile del Ministero dell’Interno. Nel regime enverista l’informazione giornalistica mira alla creazione di un nemico interno da perseguire. Ed è proprio sul tema della propaganda che il Museo dedica due stanze alla settima arte, chiamandole appunto, “Il Minicinema”, esponendo dei poster originali degli anni ‘70 e ‘80 ideati da “Nuova Albania”, l’unico studio cinematografico esistente legato all’unico movimento artistico concesso : il Realismo Socialista. Tra i soggetti rappresentati prediletti abbiamo i successi della Sigurimi, la sicurezza del paese contro il nemico e le minacce esterni, con il fine di creare una immaginaria e illusoria Albania forte, retta e integerrima. Anche in questo caso le elargizioni da parte del ministero non badavano a spese.
Su entrambi i piani abbiamo il topos del nemico, interno ed esterno. Chi è esattamente il nemico? Su quello esterno la risposta è immediata : ogni paese oltre i confini albanesi. Hoxha raggiunge isolamento completo, autoproclamata l’Albania unico paese socialista al mondo, l’unico che non ha rinnegato l’ortodossia politica; tutti gli altri sono traditori, ergo nemici esterni. E’ sul nemico interno che il soffocamento dei ogni libertà e diritto raggiunge livelli inauditi, ripercorrendolo nei Settore Tre(Chi è il nemico?) e Cinque(Intermezzo) della Casa con le sale dedicate ai processi politici, ai nomi dei prigionieri, alla vita privata. La natura repressiva si svela agli occhi del visitatore in tuta la sua veemenza, con le foto ritraenti i processi politici con l’imputato denudato di ogni diritto, impossibilitato anche nella richiesta di un avvocato, esposto al pubblico ludibrio. Il processo era un evento cittadino, trasmesso con microfoni giganti, udibile all’esterno della casa, per incutere terrore. Nella sala rivolta ai nomi prigionieri ci immergiamo in uno degli ambienti più dolorosi, con l’elenco incompleto delle persone, imprigionate e giustiziate: “detenuti e morti raggiungono lo straziante numero di 1000000 di nel 1945, e 3000000 nel 1990, 18000 incarcerati, tra cui quasi 8000 donne, più di 1000 albanesi sono morti nelle carceri e più di 400 hanno perso le proprie capacità mentali in seguito alla tortura, 20000 famiglie sono finite nei campi di internamento, più di 6000 sono stati condannati a morte senza processo”.5
Il Grande Fratello albanese entra nelle case dei cittadini comuni così come nelle opere degli artisti e, se non conformi ai dettami del Movimento, ricevono un eguale trattamento svilente. Come nel caso dell’artista Edison Gjergo, incarcerato nel 1973, incriminato di revisionismo borghese, ritenuto degradato e ispirato dalle correnti artistiche occidentali ispirato alle correnti occidentali.
Nel settimo settore le pareti della sala Le voci del passato riecheggiano le voci del passato, spogliate della loro intimità, controllate dall’indefessa Sigurimi che riusciva ad ascoltare 40 microfoni simultaneamente. Ci avviciniamo alla conclusione del percorso memoriale con il Panopticon- Panakustikon, tradotto letteralmente come “il posto da cui puoi vedere e udire ogni cosa”, chiaro rimando al carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista utilitarista Jeremy Bentham. L’essenza del Panopticon è di controllare tutti i soggetti (pan) in ogni momento, senza che detenuti sappiano quando sono osservati o meno, mediante un unico sorvegliante (opticon). “Nel suo saggio Sorvegliare e punire, Michel Foucault prenderà il panopticon come modello e figura del potere nella società contemporanea. L’architettura del panopticon sarebbe la figura di un potere che non si cala più sulla società dall’alto, ma la pervade da dentro e si costruisce in una serie di relazioni di potere multiple. Sotto il profilo delle relazioni di potere, attraverso l’invisibilità del controllo, il panopticon si ricollega anche all’Anello di Gige e alla Psicopolizia orwelliana”.6
Il controllo psicotico-maniacale della Sigurimi ha superato anche la psicolopolizia orwelliana, il cui Ministero della Verità si “limitava” ad asserire “Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”, osservando solo il visibile e deducendo pensieri. Ne “Il Palazzo dei Sogni “di Ismail Kadare esiste un ufficio chiamato Selezione, che raccoglie i sogni di tutti gli abitanti dell’Impero, per poi selezionarli ed interpretarli per evincere degli avvenimenti. E’ una strutturata quanto straziante allegoria con cui l’autore condanna la polizia segreta dei regimi dittatoriali, le torture, l’annientamento di ogni libertà di pensiero, il paranoico controllo quotidiano, fino a raggiungere anche la sfera remota del sogno. Il museo documenta senza orpelli quei decenni dall’altra parte dell’Adriatico, racconta quei sussurri violati, annunciati dal fruscìo continuo delle foglie di edera sulle pareti.
La Casa delle Foglie ci mostra l’importanza della nascita, dell’esistenza di un luogo della memoria. Cos’è un luogo della memoria?
ll termine luogo di memoria deve la sua genesi a Pierre Nora nella sua opera Les Lieux de Mémoire: “luogo della memoria è una unità significativa, d’ordine materiale o ideale, che la volontà degli uomini o il lavorio del tempo ha reso un elemento simbolico di una qualche comunità […] Il luogo della memoria ha come scopo fornire al visitatore, al passante, il quadro autentico e concreto di un fatto storico. Rende visibile ciò che non lo è: la storia […] e unisce in un unico campo due discipline: la storia appunto e la geografia”
Il mio contributo per la Giornata della Memoria, per una memoria di tutti e tutte.
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Fonti fluttuanti
4Ibidem;
5Dati ufficiali che ho trascritto ascoltando l’audioguida del sito ufficiale del Museo, primo piano, stanza 14;