Apeliote (in greco antico: Ἀπηλιώτης, Apēliótēs) è una figura della mitologia greca, rappresentazione di un vento, nello specifico era il dio del vento dell’Est. Raffigurato con tratti infantili, vestito di verde, con in mano grano, fiori e frutta, era particolarmente venerato dai contadini, in quanto portatore di pioggia di cui beneficiavano i raccolti.
In maniera equipollente, Slavika Festival, con il suo maiale stilizzato e la simil Trabant/Yugo è l’Evento riverito da studiosi, cultori, feticisti e appassionati dell’Europa dell’Est.
“Slavika è il festival delle culture slave, organizzato dall’Associazione Culturale Polski Kot, realtà nata nel 2010, a Torino, per fare da vetrina alla Polonia e alle realtà artistico/culturali del mondo slavo. Dal 2015, ogni anno per una settimana intera, Slavika porta in città film, autori, poeti, attori e musicisti, tutti legati all’Europa dell’Est, coinvolgendo diverse realtà locali e internazionali. Dalla presentazione di libri alla visione di anteprime cinematografiche, fino a concerti con band d’Oltrecortina e cene a base di gustose specialità sovietiche: tutto questo (e molto altro) è Slavika!”
La folata dell’Apeliote/Slavika ha soffiato su Torino per dieci giorni, di cui, però, ho potuto goderne la brezza per due giorni e mezzo, tra rocamboleschi cambi turno e mail che non arrivavano. Sabato scorso sono finalmente approdata nella regione sabauda. Ne segue un racconto di tipo più emozionale che descrittivo, perché il vento può soffiare ed essere percepito in maniera diversa da ognuno di noi. Dopo una levataccia mattutina, venti chilometri a piedi tra storia sabauda e punti esoterici, scrutati perfettamente grazie alla mia amica blogger Viaggionauta, una temperatura già tra troppo estiva per i miei gusti e un paio di bicchieri di buon nebbiolo, mi dirigo verso la “Mecca slava”, al Polski Kot. Qualsiasi stanchezza viene allontanata dalle coccole del violoncello e della fisarmonica degli AcCello Duo. AcCello Duo è una coppia di strumentisti nata nel 2011 da Konrad Merta alla fisarmonica, e Piotr Gach al violoncello. Da una base classica atemporale danno vita a suggestive creazioni artistiche attingendo alla tradizione etnica e popolare, un po’ degli Apocalyptica dell’Est. Konrad, fisarmonicista, arrangiatore, compositore ha completato i suoi studi di dottorato l’Accademia di Musica di Katowice. Piotr ha iniziato a suonare il violoncello all’età di 6 anni. Durante la scuola elementare e la scuola media,ha vinto il I Premio nelle gare di Malbork e Koszalin. I muri rossi e le bandiere polacche, la birra e la musica mi hanno cullato tra lo spartito delle note del mio passato, presente e futuro. Ognuno di noi ha il proprio “posto delle fragole”, il mio sicuramente la Polonia, dove ho fatto l’Erasmus, dove per la prima volta ho sentito la brezza del figlio di Eos e dove, inconsciamente, Fluttuando sulle Linee ha preso forma.
La mattina dopo mi dirigo verso il Polo del ‘900, dove è stata allestita la mostra “Borders – Sul confine. Un viaggio nell’Ucraina di oggi” ad opera dell’associazione culturale RetròScena di Torino. Già dall’immagine manifesto con la mente ci mettiamo in viaggio sui treni di tempi passati che nemmeno noi conosciamo, dipinti con i colori di quadri che non abbiamo mai visto, ma presenti in un nostro immaginario dai tratti esotici. La mostra nasce dai diari condivisi sui social durante i giorni in Ucraina,parte del progetto SulConfine e del lavoro con la realtà di volontariato BUR “Buduemo Ukrainu Razom” ovvero “Costruiamo l’Ucraina Insieme” tra Lebedyn e Merefa. “Le strade sono affollate ma quiete,per certi aspetti colorate, si incontra una umanità variegata indaffarata nelle sue attività quotidiane, i gestori dei negozietti di generi alimentari, gli uffici pubblici dal carattere austero ma elegante, i bambini in canottiera che si rincorrono ridendo, le signore anziane con il foulard sulla testa che vendono fiori ai passanti, uomini dall’aria professionale che vendono ricariche telefoniche, schede sim,accessori e mazzi di rose, senza alcun apparente collegamento.” Nonostante le pagine nere della storia contemporanea l’aria appare leggera, proiettata verso il futuro con un sentimento di rivalsa e volontà di autodeterminarsi. “Per tanti la soddisfazione è vedere che qualcuno viene a toccare con mano la realtà nel loro paese, ad ascoltare le loro voci, i loro dubbi, le loro paure e le loro speranze.” Ovunque c’è il desiderio di futuro in un paese dove lo stesso indossa le vesti dell’incerto e dell’insicuro.
“Mentre lavoriamo ogni tanto le bimbe fanno capolino dalla porta e guardano dentro con fare incuriosito, hanno occhiazzurri e lanciano occhiate ai presenti. Chissà cosa pensano e come ci vedono, sono loro in fondo il futuro di questo paese, e il domani è nelle loro piccole mani.”
Le giornate del soggiorno sono scandite da sveglie mattutine, attività fisica e yoga, colazione condivisa e lavori di ristrutturazione, tra i vari racconti dei ragazzi del posto. Ogni momento è utile per qualcosa “In sintesi: esci dalla tua stanzetta e fai qualcosa, se vuoi diventare una persona migliore.” I ragazzi del Bur sono giovani attivi, partecipano ai campi estivi e pensano al proprio futuro e a quello del loro paese, senza rassegnazione, anche l’immobilismo e la coeva situazione politica non aiutano. I soggetti della mostra sono ragazzi che hanno dovuto cambiar vita e casa da un giorno all’altro, che hanno visto stravolgersi la vita, ma senza filtro e retorica di vittimismo,con cui spesso vengono dipinti alcuni paesi all’ombra dell’ex Urss. E’ la mostra di chi volge lo sguardo più in alto di quei bombardamenti che cercano di limitarne libertà, è uno sguardo verticale contro l’orizzontalismo che viene affibbiato. E’ una mostra che tocca nell’intimo, scorgendo le lapidi di coloro che sono morti attraverso gli scontri, i fiori e i braccialetti con i colori ucraini, ci sono gli occhi lucidi di Diana presente 4 anni fa, quelli di Paul e Ivan. C’è la Kiev veloce rispetto alle zone di campagna, piene di gente, con edifici barocchi affiancati dal razionalismo sovietico,e i suoi grigi palazzoni popolari. Tra le strade vive il ricordo dell’Urss e le speranze, i movimenti e i chiaroscuri del passaggio democratico degli ultimi anni. Conosco uno dei ragazzi di Retròscena che gentilmente mi ha poi spedito il materiale via mail e continuo il mio giro. E’ una mostra che ho sentito molto e ho bisogno di bere un vino bianco fresco e rilassarmi di fronte l’opulenza della Grande Madre e scorgere con lo sguardo verso la zona pedecollinare della dimora di Profondo Rosso.
Il crepuscolo si avvicina e Via Massena chiama. C’è l’incontro “Suto Orizari – L’unico comune in Europa a guida rom” con il collettivo Volna mare, trio composto da Simone, Marco e Martina, e con i loro occhi e le loro passioni ci raccontano realtà dell’Est Europa. Li avevo conosciuti in rete con il loro primo libro “Il futuro dopo Lenin. Viaggio in Transnistria” (DOTS edizioni). La storia di Šuto Orizari inizia del 1963, quando un terribile terremoto si abbatte sull’odierna capitale del kitch Skopje, costringendola a ridisegnare gli equilibri demografici. La comunità rom , si vede così privata del suo “feudo tradizionale” il quartiere di Topaana. Il nuovo progetto del comune si basava su un processo di assimilazione dei rom, costruendo condomini in zone abitate dalle comunità maggioritarie, a cui ricevono rifiuto. Viene loro assegnato un intero quartiere, Šuto Orizari, conosciuto da tutti come Šutka. Nel 1996 è stato riconosciuto come uno dei dieci distretti di Skopje, diventando la prima realtà a mondo dove il Romanì è la lingua ufficiale insieme al macedone. Realtà unica al mondo, con sindaco rom e membri del consiglio comunale composto dal 90% da rom. I ragazzi mostrano un video di Euronews in cui la sindaca Fatima Osmanovska parla dell’unicità del municipio, dall’essere un mix di culture ai problemi che l’attanagliano, soprattutto della disoccupazione molto alta, le difficoltà di integrazione e problemi pratici come poter accedere a istruzione,sanità, posizioni lavorative, perché né censiti, né in possesso di documenti,al perenne scontro con il pregiudizi e alle iniquità sociali. Molti rom lavorano in nero nel mercato e nel commercio, nella grande strada che attraversa la città e che ogni mattina si trasforma nel colorato Gran Bazar, il più grande mercato all’aperto. L’ironia e l’esposizione incalzante del trio nordico dei Volna Mare proiettato verso Est ci illustra l’importanza della musica presso la comunità di Šutka, come elemento di coesione e integrazione, di abbattimento di barriere grazie alla Roma Rock School, fondata dal preside Alvin(presente nel video), un progetto di musica multietnica, dove le sonorità folkloristiche tradizionali si fondono con sonorità agli antipodi, come il metal. Partire dalla musica per abbattere i muri dell’isolamento e della “ghettizzazione”, fare della multiculturalità il traino del futuro, perché, come ha detto la sindaca “Tra noi rom ci sono sempre state tante sub-culture, e qui abbiamo un po’ di tutto questo. Ma penso che non ne siamo così consapevoli.” A termine dell’incontro faccio il mio dovere e acquisto il loro libro, perché Soros ancora non finanzia nessuno di noi. E tra una birretta e un’altra attendo la proiezione di “Tito i Ja” di Goran Marković del 1992, film culto in quella che è stata la Jugoslavia, per il tema, il finale aperto a più interpretazioni, per le contraddizioni che hanno fatto del regime del Maresciallo. Siamo a Belgrado negli anni ‘50, due famiglie della borghesia decaduta vivono insieme sotto lo stesso tetto, in spazi molto ridotti, in seguito alle statalizzazioni e ai cambiamenti fiscali voluti da Tito. Al centro di questo marasma quotidiano famigliare troviamo il piccolo Zoran, bambino cicciotello che mangia qualsiasi cosa ( anche l’intonaco dei muri), un piccolo outsider, bistrattato dall’insegnante, un po’ deriso da tutti. Zoran è diverso dagli altri, i genitori sono degli artisti(la madre è una ballerina e il padre un musicista) critici e contrari verso il regime e chi ne è a capo. Non trovando rifugio né nel livoroso nucleo famigliare, né a scuola, né nella ragazza più grande di cui si è invaghito, il burroso Zoran si chiude in se stesso, spazia nella sua sconfinata immaginazione e coltiva un culto personale per il Maresciallo Tito, lasciando i parenti basiti e dispiaciuti. Un giorno la maestra totalmente devota al regime sorprende la classe con un tema a sorpresa “perché voglio bene al compagno Tito”. Zoran, nel pieno della catarsi della sua fantasticheria scrive di sua sponte una poesia, perfetta per rafforzare il culto della personalità, in quanto il bambino ammette di voler bene a più a Tito che ai suoi genitori, sempre più sbigottiti. Insieme agli altri giovani “pioneri” anche Zoran può partecipare alla gita diretta alla città natale di Tito, Kumrovec. L’inizio della gita segna il lento svanire del culto e la fine della disillusione, Zoran viene vessato continuamente dall’educatore, che lo vede come un “diversi” dall’inizio, e dai suoi compagni stesso, eccettuata la bambina che gli sta vicino da sempre. Tra avventure, ritardi, negligenze e incapacità dell’istitutore, giungono a destinazione. Giunti a Kumrovec qualcuno dovrebbe leggere la poesia vincitrice, viene scelto lo stesso Zoran, ma la fine del suo sogno coincide anche con l’improvvisato discorso in cui riconosce di voler bene più ai genitori, ai compagni di scuola e ai parenti che al Maresciallo. Ciò comporterà il suicidio del precettore, colpito nella sua “ortodossia politica”. Nonostante tutto, Zoran e gli altri bambini vengono invitati alla festa di compleanno di Tito, ma vediamo il nostro protagonista cicciotto completamente estraneo agli eventi, distaccato nei confronti di colui che aveva venerato. Il film si conclude con lui che si defila dalle foto ricordo e si dedica alla tavola imbandita di dolci. Ho trovato la prima parte del film molto divertente e con un ritmo incalzante, la seconda un po’ più lenta, probabilmente in sintonia con l’affievolirsi del culto del bambino. Una commedia amara in tipico stile yugoslavo che lascia molte interpretazioni, ma che consiglio di vedere. E sul finale di “Tito e io” saluto il Polski Kot. (sigh).
Il giorno dopo ultimo appuntamento presso la galleria Fiaf di Torino “Racconti di Pietroburgo” di Aleksandr Petrosjan, “uno dei rappresentanti più importanti della street photography in Russia, noto al pubblico per la sua capacità di mettere in evidenza gli aspetti della quotidianità in modo ironico e dissacrante”, come lo descrivono gli amici di Russiaintranslation. Racconti di Pietroburgo ha come protagonista la città, i suoi anfratti, i personaggi variegati che la abitano,di diverso lignaggio, che svolgono la loro esistenza all’ombra della città opulente. La Pietroburgo elegante, evocativa,con la sua grandeur imperiale viene accantonata, per far spazio a una città ricca di contrasti, di ombre, di esistenze che spesso sopravvivono invece di vivere, in chiave grottesca, amara e malinconica. Una San Pietroburgo a qualsiasi ora, giorno e notte, nelle scene private e in quelle pubbliche, nelle parate come nei matrimoni. In un’intervista il fotografo russo ha detto “I miei soggetti sono due: le città e le persone. San Pietroburgo è il mio palcoscenico preferito ma ho anche la fortuna di viaggiare molto per lavoro e respirare altre realtà, molto diverse dalla Russia. ”
“Ho dato a tutti i miei scatti un titolo in base alla sensazione che provavo in quel momento. Si tratta di un titolo completamente personale, anche se credo che una bella foto non abbia bisogno proprio di alcun nome, ma debba semplicemente colpire al cuore chi la osserva, e non esiste titolo o nome che possa esprimere questo linguaggio emozionale così soggettivo.”
Il racconto delle mie giornate di vento dell’Est torinese si concludono qui, ringraziando tutti i partecipanti, e soprattutto gli organizzatori di Slavika Festival. Anche in questo caso, Soros ancora non aiuta, quindi i semplici ringraziamenti hanno ancora più valore se supportiamo il nostro festival preferito.
Facciamo soffiare il vento si Slavika sempre più forte :
http://www.slavika.it/tickets/